# Alessandro Manzoni "I Promessi Sposi" - Chapters I and II 
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# Capitolo I

Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene
non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi, a seconda dello
sporgere e del rientrare di quelli, vien, quasi a un tratto, a
ristringersi, e a prender corso e figura di fiume, tra un promontorio
a destra, e un'ampia costiera dall'altra parte; e il ponte, che ivi
congiunge le due rive, par che renda ancor più sensibile
all'occhio questa trasformazione, e segni il punto in cui il lago
cessa, e l'Adda rincomincia, per ripigliar poi nome di lago dove le
rive, allontanandosi di nuovo, lascian l'acqua distendersi e
rallentarsi in nuovi golfi e in nuovi seni. La costiera, formata dal
deposito di tre grossi torrenti, scende appoggiata a due monti
contigui, l'uno detto di san Martino, l'altro, con voce lombarda, il
«Resegone» , dai molti suoi cocuzzoli in fila, che in vero lo
fanno somigliare a una sega: talché non è chi, al primo
vederlo, purché sia di fronte, come per esempio di su le mura
di Milano che guardano a settentrione, non lo discerna tosto, a un tal
contrassegno, in quella lunga e vasta giogaia, dagli altri monti di
nome più oscuro e di forma più comune. Per un buon
pezzo, la costa sale con un pendìo lento e continuo; poi si
rompe in poggi e in valloncelli, in erte e in ispianate, secondo
l'ossatura de' due monti, e il lavoro dell'acque. Il lembo estremo,
tagliato dalle foci de' torrenti, è quasi tutto ghiaia e
ciottoloni; il resto, campi e vigne, sparse di terre, di ville, di
casali; in qualche parte boschi, che si prolungano su per la montagna.
Lecco, la principale di quelle terre, e che dà nome al
territorio, giace poco discosto dal ponte, alla riva del lago, anzi
viene in parte a trovarsi nel lago stesso, quando questo ingrossa: un
gran borgo al giorno d'oggi, e che s'incammina a diventar
città. Ai tempi in cui accaddero i fatti che prendiamo a
raccontare, que1 borgo, già considerabile, era anche un
castello, e aveva perciò l'onore d'alloggiare un comandante, e
il vantaggio di possedere una stabile guarnigione di soldati spagnoli,
che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese,
accarezzavan di tempo in tempo le spalle a qualche marito, a qualche
padre; e, sul finir dell'estate, non mancavan mai di spandersi nelle
vigne, per diradar l'uve, e alleggerire a' contadini le fatiche della
vendemmia. Dall'una all'altra di quelle terre, dall'alture alla riva,
da un poggio all'altro, correvano, e corrono tuttavia, strade e
stradette, più o men ripide, o piane; ogni tanto affondate,
sepolte tra due muri, donde, alzando lo sguardo, non iscoprite che un
pezzo di cielo e qualche vetta di monte; ogni tanto elevate su
terrapieni aperti: e da qui la vista spazia per prospetti più o
meno estesi, ma ricchi sempre e sempre qualcosa nuovi, secondo che i
diversi punti piglian più o meno della vasta scena circostante,
e secondo che questa o quella parte campeggia o si scorcia, spunta o
sparisce a vicenda. Dove un pezzo, dove un altro, dove una lunga
distesa di que1 vasto e variato specchio dell'acqua; di qua lago,
chiuso all'estremità o piùttosto smarrito in un gruppo,
in un andirivieni di montagne, e di mano in mano più allargato
tra altri monti che si spiegano, a uno a uno, allo sguardo, e che
l'acqua riflette capovolti, co' paesetti posti sulle rive; di
là braccio di fiume, poi lago, poi fiume ancora, che va a
perdersi in lucido serpeggiamento pur tra' monti che l'accompagnano,
degradando via via, e perdendosi quasi anch'essi nell'orizzonte. Il
luogo stesso da dove contemplate que' vari spettacoli, vi fa
spettacolo da ogni parte: il monte di cui passeggiate le falde, vi
svolge, al di sopra, d'intorno, le sue cime e le balze, distinte,
rilevate, mutabili quasi a ogni passo, aprendosi e contornandosi in
gioghi ciò che v'era sembrato prima un sol giogo, e comparendo
in vetta ciò che poco innanzi vi si rappresentava sulla costa:
e l'ameno, il domestico di quelle falde tempera gradevolmente il
selvaggio, e orna vie più il magnifico dell'altre vedute.

Per una di queste stradicciole, tornava bel bello dalla passeggiata
verso casa, sulla sera del giorno 7 novembre dell'anno 1628, don
Abbondio, curato d'una delle terre accennate di sopra: il nome di
questa, né il casato del personaggio, non si trovan nel
manoscritto, né a questo luogo né altrove. Diceva
tranquillamente il suo ufizio, e talvolta, tra un salmo e l'altro,
chiudeva il breviario, tenendovi dentro, per segno, l'indice della
mano destra, e, messa poi questa nell'altra dietro la schiena,
proseguiva il suo cammino, guardando a terra, e buttando con un piede
verso il muro i ciottoli che facevano inciampo nel sentiero: poi
alzava il viso, e, girati oziosamente gli occhi all'intorno, li
fissava alla parte d'un monte, dove la luce del sole già
scomparso, scappando per i fessi del monte opposto, si dipingeva qua e
là sui massi sporgenti, come a larghe e inuguali pezze di
porpora. Aperto poi di nuovo il breviario, e recitato un altro
squarcio, giunse a una voltata della stradetta, dov'era solito d'alzar
sempre gli occhi dal libro, e di guardarsi dinanzi: e così fece
anche quel giorno. Dopo la voltata, la strada correva diritta, forse
un sessanta passi, e poi si divideva in due viottole, a foggia d'un
ipsilon: quella a destra saliva verso il monte, e menava alla cura:
l'altra scendeva nella valle fino a un torrente; e da questa parte il
muro non arrivava che all'anche del passeggiero. I muri interni delle
due viottole, in vece di riunirsi ad angolo, terminavano in un
tabernacolo, sul quale eran dipinte certe figure lunghe, serpeggianti,
che finivano in punta, e che, nell'intenzion dell'artista, e agli
occhi degli abitanti del vicinato, volevan dir fiamme; e, alternate
con le fiamme, cert'altre figure da non potersi descrivere, che
volevan dire anime del purgatorio: anime e fiamme a color di mattone,
sur un fondo bigiognolo, con qualche scalcinatura qua e là. Il
curato, voltata la stradetta, e dirizzando, com'era solito, lo sguardo
al tabernacolo, vide una cosa che non s'aspettava, e che non avrebbe
voluto vedere. Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al
confluente, per dir così, delle due viottole: un di costoro, a
cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di fuori,
e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in
piedi, appoggiato al muro, con le braccia incrociate sul petto.
L'abito, il portamento, e quello che, dal luogo ov'era giunto il
curato, si poteva distinguer dell'aspetto, non lasciavan dubbio
intorno alla lor condizione. Avevano entrambi intorno al capo una
reticella verde, che cadeva sull'omero sinistro, terminata in una gran
nappa, e dalla quale usciva sulla fronte un enorme ciuffo: due lunghi
mustacchi arricciati in punta: una cintura lucida di cuoio, e a quella
attaccate due pistole: un piccol corno ripieno di polvere, cascante
sul petto, come una collana: un manico di coltellaccio che spuntava
fuori d'un taschino degli ampi e gonfi calzoni: uno spadone, con una
gran guardia traforata a lamine d'ottone, congegnate come in cifra,
forbite e lucenti: a prima vista si davano a conoscere per individui
della specie de'  «bravi» .

Questa specie, ora del tutto perduta, era allora floridissima in
Lombardia, e già molto antica. Chi non ne avesse idea, ecco
alcuni squarci autentici, che potranno darne una bastante de' suoi
caratteri principali, degli sforzi fatti per ispegnerla, e della sua
dura e rigogliosa vitalità.

Fino dall'otto aprile dell'anno 1583, l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo signor don Carlo d'Aragon, Principe di Castelvetrano,
Duca di Terranuova, Marchese d'Avola, Conte di Burgeto, grande
Ammiraglio, e gran Contestabile di Sicilia, Governatore di Milano e
Capitan Generale di Sua Maestà Cattolica in Italia,
«pienamente informato della intollerabile miseria in che è
vivuta e vive questa città di Milano, per cagione dei bravi e
vagabondi,» pubblica un bando contro di essi.  «Dichiara e
diffinisce tutti coloro essere compresi in questo bando, e doversi
ritenere bravi e vagabondi... i quali, essendo forestieri o del paese,
non hanno esercizio alcuno, od avendolo, non lo fanno... ma, senza
salario, o pur con esso, s'appoggiano a qualche cavaliere o
gentiluomo, officiale o mercante... per fargli spalle e favore, o
veramente, come si può presumere, per tendere insidie ad
altri» ... A tutti costoro ordina che, nel termine di giorni sei,
abbiano a sgomberare il paese, intima la galera a' renitenti, e
dà a tutti gli ufiziali della giustizia le più
stranamente ampie e indefinite facoltà, per l'esecuzione
dell'ordine. Ma, nell'anno seguente, il 12 aprile, scorgendo il detto
signore,  «che questa Città è tuttavia piena di detti
bravi... tornati a vivere come prima vivevano, non punto mutato il
costume loro, né scemato il numero,» dà fuori un'altra
grida, ancor più vigorosa e notabile, nella quale, tra l'altre
ordinazioni, prescrive:

«Che qualsivoglia persona, così di questa Città, come
forestiera, che per due testimonj consterà esser tenuto, e
comunemente riputato per bravo, et aver tal nome, ancorché non
si verifichi aver fatto delitto alcuno... per questa sola riputazione
di bravo, senza altri indizj, possa dai detti giudici e da ognuno di
loro esser posto alla corda et al tormento, per processo
informativo... et ancorché non confessi delitto alcuno,
tuttavia sia mandato alla galea, per detto triennio, per la sola
opinione e nome di bravo, come di sopra» . Tutto ciò, e il di
più che si tralascia, perché  «Sua Eccellenza è
risoluta di voler essere obbedita da ognuno» .

All'udir parole d'un tanto signore, così gagliarde e sicure, e
accompagnate da tali ordini, viene una gran voglia di credere che, al
solo rimbombo di esse, tutti i bravi siano scomparsi per sempre. Ma la
testimonianza d'un signore non meno autorevole, né meno dotato
di nomi, ci obbliga a credere tutto il contrario. E' questi
l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco,
Contestabile di Castiglia, Cameriero maggiore di Sua Maestà,
Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore
della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara,
Governatore dello Stato di Milano, etc. Il 5 giugno dell'anno 1593,
pienamente informato anche lui  «di quanto danno e rovine sieno... i
bravi e vagabondi, e del pessimo effetto che tal sorta di gente, fa
contra il ben pubblico, et in delusione della giustizia» , intima
loro di nuovo che, nel termine di giorni sei, abbiano a sbrattare il
paese, ripetendo a un dipresso le prescrizioni e le minacce medesime
del suo predecessore. Il 23 maggio poi dell'anno 1598,  «informato,
con non poco dispiacere dell'animo suo, che... ogni dì
più in questa Città e Stato va crescendo il numero di
questi tali» (bravi e vagabondi)  «, né di loro, giorno e
notte, altro si sente che ferite appostatamente date, omicidii e
ruberie et ogni altra qualità di delitti, ai quali si rendono
più facili, confidati essi bravi d'essere aiutati dai capi e
fautori loro,...»  prescrive di nuovo gli stessi rimedi, accrescendo
la dose, come s'usa nelle malattie ostinate.  «Ognuno dunque,» 
conchiude poi,  «onninamente si guardi di contravvenire in parte
alcuna alla grida presente, perché, in luogo di provare la
clemenza di Sua Eccellenza, proverà il rigore, e l'ira sua...
essendo risoluta e determinata che questa sia l'ultima e perentoria
monizione» .

Non fu però di questo parere l'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore, il Signor Don Pietro Enriquez de Acevedo, Conte di Fuentes,
Capitano, e Governatore dello Stato di Milano; non fu di questo
parere, e per buone ragioni.  «Pienamente informato della miseria in
che vive questa Città e Stato per cagione del gran numero di
bravi che in esso abbonda... e risoluto di totalmente estirpare seme
tanto pernizioso» , dà fuori, il 5 decembre 1600, una nuova
grida piena anch'essa di severissime comminazioni,  «con fermo
proponimento che, con ogni rigore, e senza speranza di remissione,
siano onninamente eseguite» .

Convien credere però che non ci si mettesse con tutta quella
buona voglia che sapeva impiegare nell'ordir cabale, e nel suscitar
nemici al suo gran nemico Enrico IV; giacché, per questa parte,
la storia attesta come riuscisse ad armare contro quel re il duca di
Savoia, a cui fece perder più d'una città; come
riuscisse a far congiurare il duca di Biron, a cui fece perder la
testa; ma, per ciò che riguarda quel seme tanto pernizioso de'
bravi, certo è che esso continuava a germogliare, il 22
settembre dell'anno 1612. In quel giorno l'Illustrissimo ed
Eccellentissimo Signore, il Signor Don Giovanni de Mendozza, Marchese
de la Hynojosa, Gentiluomo etc., Governatore etc., pensò
seriamente ad estirparlo. A quest'effetto, spedì a Pandolfo e
Marco Tullio Malatesti, stampatori regii camerali, la solita grida,
corretta ed accresciuta, perché la stampassero ad esterminio
de' bravi. Ma questi vissero ancora per ricevere, il 24 decembre
dell'anno 1618, gli stessi e più forti colpi dall'Illustrissimo
ed Eccellentissimo Signore, il Signor Don Gomez Suarez de Figueroa,
Duca di Feria, etc., Governatore etc. Però, non essendo essi
morti neppur di quelli, l'Illustrissimo ed Eccellentissimo Signore, il
Signor Gonzalo Fernandez di Cordova, sotto il cui governo accadde la
passeggiata di don Abbondio, s'era trovato costretto a ricorreggere e
ripubblicare la solita grida contro i bravi, il giorno 5 ottobre del
1627, cioè un anno, un mese e due giorni prima di quel
memorabile avvenimento.

Né fu questa l'ultima pubblicazione; ma noi delle posteriori
non crediamo dover far menzione, come di cosa che esce dal periodo
della nostra storia. Ne accenneremo soltanto una del 13 febbraio
dell'anno 1632, nella quale l'Illustrissimo ed Eccellentissimo
Signore,  «el Duque de Feria» , per la seconda volta governatore,
ci avvisa che  «le maggiori sceleraggini procedono da quelli che
chiamano bravi» . Questo basta ad assicurarci che, nel tempo di cui
noi trattiamo, c'era de' bravi tuttavia.

Che i due descritti di sopra stessero ivi ad aspettar qualcheduno, era
cosa troppo evidente; ma quel che più dispiacque a don Abbondio
fu il dover accorgersi, per certi atti, che l'aspettato era lui.
Perché, al suo apparire, coloro s'eran guardati in viso,
alzando la testa, con un movimento dal quale si scorgeva che tutt'e
due a un tratto avevan detto: è lui; quello che stava a
cavalcioni s'era alzato, tirando la sua gamba sulla strada; l'altro
s'era staccato dal muro; e tutt'e due gli s'avviavano incontro. Egli,
tenendosi sempre il breviario aperto dinanzi, come se leggesse,
spingeva lo sguardo in su, per ispiar le mosse di coloro; e,
vedendoseli venir proprio incontro, fu assalito a un tratto da mille
pensieri. Domandò subito in fretta a se stesso, se, tra i bravi
e lui, ci fosse qualche uscita di strada, a destra o a sinistra; e gli
sovvenne subito di no. Fece un rapido esame, se avesse peccato contro
qualche potente, contro qualche vendicativo; ma, anche in quel
turbamento, il testimonio consolante della coscienza lo rassicurava
alquanto: i bravi però s'avvicinavano, guardandolo fisso. Mise
l'indice e il medio della mano sinistra nel collare, come per
raccomodarlo; e, girando le due dita intorno al collo, volgeva intanto
la faccia all'indietro, torcendo insieme la bocca, e guardando con la
coda dell'occhio, fin dove poteva, se qualcheduno arrivasse; ma non
vide nessuno. Diede un'occhiata, al di sopra del muricciolo, ne'
campi: nessuno; un'altra più modesta sulla strada dinanzi;
nessuno, fuorché i bravi. Che fare? tornare indietro, non era a
tempo: darla a gambe, era lo stesso che dire, inseguitemi, o peggio.
Non potendo schivare il pericolo, vi corse incontro, perché i
momenti di quell'incertezza erano allora così penosi per lui,
che non desiderava altro che d'abbreviarli. Affrettò il passo,
recitò un versetto a voce più alta, compose la faccia a
tutta quella quiete e ilarità che poté, fece ogni sforzo
per preparare un sorriso; quando si trovò a fronte dei due
galantuomini, disse mentalmente: ci siamo; e si fermò su due
piedi.

- Signor curato, - disse un di que' due, piantandogli gli occhi in
faccia.

- Cosa comanda? - rispose subito don Abbondio, alzando i suoi dal
libro, che gli restò spalancato nelle mani, come sur un
leggìo.

- Lei ha intenzione, - proseguì l'altro, con l'atto minaccioso
e iracondo di chi coglie un suo inferiore sull'intraprendere una
ribalderia, - lei ha intenzione di maritar domani Renzo Tramaglino e
Lucia Mondella!

- Cioè... - rispose, con voce tremolante, don Abbondio: -
cioè. Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come
vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro
pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a
un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.

- Or bene, - gli disse il bravo, all'orecchio, ma in tono solenne di
comando, - questo matrimonio non s'ha da fare, né domani,
né mai.

- Ma, signori miei, - replicò don Abbondio, con la voce
mansueta e gentile di chi vuol persuadere un impaziente, - ma, signori
miei, si degnino di mettersi ne' miei panni. Se la cosa dipendesse da
me,... vedon bene che a me non me ne vien nulla in tasca...

- Orsù, - interruppe il bravo, - se la cosa avesse a decidersi
a ciarle, lei ci metterebbe in sacco. Noi non ne sappiamo, né
vogliam saperne di più. Uomo avvertito... lei c'intende.

- Ma lor signori son troppo giusti, troppo ragionevoli...

- Ma, - interruppe questa volta l'altro compagnone, che non aveva
parlato fin allora, - ma il matrimonio non si farà, o... - e
qui una buona bestemmia, - o chi lo farà non se ne
pentirà, perché non ne avrà tempo, e... -
un'altra bestemmia.

- Zitto, zitto, - riprese il primo oratore: - il signor curato
è un uomo che sa il viver del mondo; e noi siam galantuomini,
che non vogliam fargli del male, purché abbia giudizio. Signor
curato, l'illustrissimo signor don Rodrigo nostro padrone la riverisce
caramente.

Questo nome fu, nella mente di don Abbondio, come, nel forte d'un
temporale notturno, un lampo che illumina momentaneamente e in confuso
gli oggetti, e accresce il terrore. Fece, come per istinto, un
grand'inchino, e disse: - se mi sapessero suggerire...

- Oh! suggerire a lei che sa di latino! - interruppe ancora il bravo,
con un riso tra lo sguaiato e il feroce. - A lei tocca. E sopra tutto,
non si lasci uscir parola su questo avviso che le abbiam dato per suo
bene; altrimenti... ehm... sarebbe lo stesso che fare quel tal
matrimonio. Via, che vuol che si dica in suo nome all'illustrissimo
signor don Rodrigo?

- Il mio rispetto...

- Si spieghi meglio!

-... Disposto... disposto sempre all'ubbidienza -. E, proferendo
queste parole, non sapeva nemmen lui se faceva una promessa, o un
complimento. I bravi le presero, o mostraron di prenderle nel
significato più serio.

- Benissimo, e buona notte, messere, - disse l'un d'essi, in atto di
partir col compagno. Don Abbondio, che, pochi momenti prima, avrebbe
dato un occhio per iscansarli, allora avrebbe voluto prolungar la
conversazione e le trattative. - Signori... - cominciò,
chiudendo il libro con le due mani; ma quelli, senza più dargli
udienza, presero la strada dond'era lui venuto, e s'allontanarono,
cantando una canzonaccia che non voglio trascrivere. Il povero don
Abbondio rimase un momento a bocca aperta, come incantato; poi prese
quella delle due stradette che conduceva a casa sua, mettendo innanzi
a stento una gamba dopo l'altra, che parevano aggranchiate. Come
stesse di dentro, s'intenderà meglio, quando avrem detto
qualche cosa del suo naturale, e de' tempi in cui gli era toccato di
vivere.

Don Abbondio (il lettore se n'è già avveduto) non era
nato con un cuor di leone. Ma, fin da' primi suoi anni, aveva dovuto
comprendere che la peggior condizione, a que' tempi, era quella d'un
animale senza artigli e senza zanne, e che pure non si sentisse
inclinazione d'esser divorato. La forza legale non proteggeva in alcun
conto l'uomo tranquillo, inoffensivo, e che non avesse altri mezzi di
far paura altrui. Non già che mancassero leggi e pene contro le
violenze private. Le leggi anzi diluviavano; i delitti erano
enumerati, e particolareggiati, con minuta prolissità; le pene,
pazzamente esorbitanti e, se non basta, aumentabili, quasi per ogni
caso, ad arbitrio del legislatore stesso e di cento esecutori; le
procedure, studiate soltanto a liberare il giudice da ogni cosa che
potesse essergli d'impedimento a proferire una condanna: gli squarci
che abbiam riportati delle gride contro i bravi, ne sono un piccolo,
ma fedel saggio. Con tutto ciò, anzi in gran parte a cagion di
ciò, quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in
governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente
l'impotenza de' loro autori; o, se producevan qualche effetto
immediato, era principalmente d'aggiunger molte vessazioni a quelle
che i pacifici e i deboli già soffrivano da' perturbatori, e
d'accrescer le violenze e l'astuzia di questi. L'impunità era
organizzata, e aveva radici che le gride non toccavano, o non potevano
smovere. Tali eran gli asili, tali i privilegi d'alcune classi, in
parte riconosciuti dalla forza legale, in parte tollerati con astioso
silenzio, o impugnati con vane proteste, ma sostenuti in fatto e
difesi da quelle classi, con attività d'interesse, e con
gelosia di puntiglio. Ora, quest'impunità minacciata e
insultata, ma non distrutta dalle gride, doveva naturalmente, a ogni
minaccia, e a ogni insulto, adoperar nuovi sforzi e nuove invenzioni,
per conservarsi. Così accadeva in effetto; e, all'apparire
delle gride dirette a comprimere i violenti, questi cercavano nella
loro forza reale i nuovi mezzi più opportuni, per continuare a
far ciò che le gride venivano a proibire. Potevan ben esse
inceppare a ogni passo, e molestare l'uomo bonario, che fosse senza
forza propria e senza protezione; perché, col fine d'aver sotto
la mano ogni uomo, per prevenire o per punire ogni delitto,
assoggettavano ogni mossa del privato al volere arbitrario d'esecutori
d'ogni genere. Ma chi, prima di commettere il delitto, aveva prese le
sue misure per ricoverarsi a tempo in un convento, in un palazzo, dove
i birri non avrebber mai osato metter piede; chi, senz'altre
precauzioni, portava una livrea che impegnasse a difenderlo la
vanità e l'interesse d'una famiglia potente, di tutto un ceto,
era libero nelle sue operazioni, e poteva ridersi di tutto quel
fracasso delle gride. Di quegli stessi ch'eran deputati a farle
eseguire, alcuni appartenevano per nascita alla parte privilegiata,
alcuni ne dipendevano per clientela; gli uni e gli altri, per
educazione, per interesse, per consuetudine, per imitazione, ne
avevano abbracciate le massime, e si sarebbero ben guardati
dall'offenderle, per amor d'un pezzo di carta attaccato sulle
cantonate. Gli uomini poi incaricati dell'esecuzione immediata, quando
fossero stati intraprendenti come eroi, ubbidienti come monaci, e
pronti a sacrificarsi come martiri, non avrebber però potuto
venirne alla fine, inferiori com'eran di numero a quelli che si
trattava di sottomettere, e con una gran probabilità d'essere
abbandonati da chi, in astratto e, per così dire, in teoria,
imponeva loro di operare. Ma, oltre di ciò, costoro eran
generalmente de' più abbietti e ribaldi soggetti del loro
tempo; l'incarico loro era tenuto a vile anche da quelli che potevano
averne terrore, e il loro titolo un improperio. Era quindi ben
naturale che costoro, in vece d'arrischiare, anzi di gettar la vita in
un'impresa disperata, vendessero la loro inazione, o anche la loro
connivenza ai potenti, e si riservassero a esercitare la loro esecrata
autorità e la forza che pure avevano, in quelle occasioni dove
non c'era pericolo; nell'opprimer cioè, e nel vessare gli
uomini pacifici e senza difesa.

L'uomo che vuole offendere, o che teme, ogni momento, d'essere offeso,
cerca naturalmente alleati e compagni. Quindi era, in que' tempi,
portata al massimo punto la tendenza degl'individui a tenersi
collegati in classi, a formarne delle nuove, e a procurare ognuno la
maggior potenza di quella a cui apparteneva. Il clero vegliava a
sostenere e ad estendere le sue immunità, la nobiltà i
suoi privilegi, il militare le sue esenzioni. I mercanti, gli
artigiani erano arrolati in maestranze e in confraternite, i
giurisperiti formavano una lega, i medici stessi una corporazione.
Ognuna di queste piccole oligarchie aveva una sua forza speciale e
propria; in ognuna l'individuo trovava il vantaggio d'impiegar per
sé, a proporzione della sua autorità e della sua
destrezza, le forze riunite di molti. I più onesti si valevan
di questo vantaggio a difesa soltanto; gli astuti e i facinorosi ne
approfittavano, per condurre a termine ribalderie, alle quali i loro
mezzi personali non sarebber bastati, e per assicurarsene
l'impunità. Le forze però di queste varie leghe eran
molto disuguali; e, nelle campagne principalmente, il nobile dovizioso
e violento, con intorno uno stuolo di bravi, e una popolazione di
contadini avvezzi, per tradizione famigliare, e interessati o forzati
a riguardarsi quasi come sudditi e soldati del padrone, esercitava un
potere, a cui difficilmente nessun'altra frazione di lega avrebbe ivi
potuto resistere.

Il nostro Abbondio non nobile, non ricco, coraggioso ancor meno, s'era
dunque accorto, prima quasi di toccar gli anni della discrezione,
d'essere, in quella società, come un vaso di terra cotta,
costretto a viaggiare in compagnia di molti vasi di ferro. Aveva
quindi, assai di buon grado, ubbidito ai parenti, che lo vollero
prete. Per dir la verità, non aveva gran fatto pensato agli
obblighi e ai nobili fini del ministero al quale si dedicava:
procacciarsi di che vivere con qualche agio, e mettersi in una classe
riverita e forte, gli eran sembrate due ragioni più che
sufficienti per una tale scelta. Ma una classe qualunque non protegge
un individuo, non lo assicura, che fino a un certo segno: nessuna lo
dispensa dal farsi un suo sistema particolare. Don Abbondio, assorbito
continuamente ne' pensieri della propria quiete, non si curava di que'
vantaggi, per ottenere i quali facesse bisogno d'adoperarsi molto, o
d'arrischiarsi un poco. Il suo sistema consisteva principalmente nello
scansar tutti i contrasti, e nel cedere, in quelli che non poteva
scansare. Neutralità disarmata in tutte le guerre che
scoppiavano intorno a lui, dalle contese, allora frequentissime, tra
il clero e le podestà laiche, tra il militare e il civile, tra
nobili e nobili, fino alle questioni tra due contadini, nate da una
parola, e decise coi pugni, o con le coltellate. Se si trovava
assolutamente costretto a prender parte tra due contendenti, stava col
più forte, sempre però alla retroguardia, e procurando
di far vedere all'altro ch'egli non gli era volontariamente nemico:
pareva che gli dicesse: ma perché non avete saputo esser voi il
più forte? ch'io mi sarei messo dalla vostra parte. Stando alla
larga da' prepotenti, dissimulando le loro soverchierie passeggiere e
capricciose, corrispondendo con sommissioni a quelle che venissero da
un'intenzione più seria e più meditata, costringendo, a
forza d'inchini e di rispetto gioviale, anche i più burberi e
sdegnosi, a fargli un sorriso, quando gl'incontrava per la strada, il
pover'uomo era riuscito a passare i sessant'anni, senza gran
burrasche.

Non è però che non avesse anche lui il suo po' di fiele
in corpo; e quel continuo esercitar la pazienza, quel dar così
spesso ragione agli altri, que' tanti bocconi amari inghiottiti in
silenzio, glielo avevano esacerbato a segno che, se non avesse, di
tanto in tanto, potuto dargli un po' di sfogo, la sua salute n'avrebbe
certamente sofferto. Ma siccome v'eran poi finalmente al mondo, e
vicino a lui, persone ch'egli conosceva ben bene per incapaci di far
male, così poteva con quelle sfogare qualche volta il mal umore
lungamente represso, e cavarsi anche lui la voglia d'essere un po'
fantastico, e di gridare a torto. Era poi un rigido censore degli
uomini che non si regolavan come lui, quando però la censura
potesse esercitarsi senza alcuno, anche lontano, pericolo. Il battuto
era almeno almeno un imprudente; l'ammazzato era sempre stato un uomo
torbido. A chi, messosi a sostener le sue ragioni contro un potente,
rimaneva col capo rotto, don Abbondio sapeva trovar sempre qualche
torto; cosa non difficile, perché la ragione e il torto non si
dividon mai con un taglio così netto, che ogni parte abbia
soltanto dell'una o dell'altro. Sopra tutto poi, declamava contro que'
suoi confratelli che, a loro rischio, prendevan le parti d'un debole
oppresso, contro un soverchiatore potente. Questo chiamava un
comprarsi gl'impicci a contanti, un voler raddirizzar le gambe ai
cani; diceva anche severamente, ch'era un mischiarsi nelle cose
profane, a danno della dignità del sacro ministero. E contro
questi predicava, sempre però a quattr'occhi, o in un
piccolissimo crocchio, con tanto più di veemenza, quanto
più essi eran conosciuti per alieni dal risentirsi, in cosa che
li toccasse personalmente. Aveva poi una sua sentenza prediletta, con
la quale sigillava sempre i discorsi su queste materie: che a un
galantuomo, il qual badi a sé, e stia ne' suoi panni, non
accadon mai brutti incontri.

Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare
sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato. Lo
spavento di que' visacci e di quelle parolacce, la minaccia d'un
signore noto per non minacciare invano, un sistema di quieto vivere,
ch'era costato tant'anni di studio e di pazienza, sconcertato in un
punto, e un passo dal quale non si poteva veder come uscirne: tutti
questi pensieri ronzavano tumultuariamente nel capo basso di don
Abbondio. « Se Renzo si potesse mandare in pace con un bel no,
via; ma vorrà delle ragioni; e cosa ho da rispondergli, per
amor del cielo? E, e, e, anche costui è una testa: un agnello
se nessun lo tocca, ma se uno vuol contraddirgli... ih! E poi, e poi,
perduto dietro a quella Lucia, innamorato come... Ragazzacci, che, per
non saper che fare, s'innamorano, voglion maritarsi, e non pensano ad
altro; non si fanno carico de' travagli in che mettono un povero
galantuomo. Oh povero me! vedete se quelle due figuracce dovevan
proprio piantarsi sulla mia strada, e prenderla con me! Che c'entro
io? Son io che voglio maritarmi? Perché non son andati
piuttosto a parlare... Oh vedete un poco: gran destino è il
mio, che le cose a proposito mi vengan sempre in mente un momento dopo
l'occasione. Se avessi pensato di suggerir loro che andassero a portar
la loro imbasciata... » Ma, a questo punto, s'accorse che il
pentirsi di non essere stato consigliere e cooperatore
dell'iniquità era cosa troppo iniqua; e rivolse tutta la stizza
de' suoi pensieri contro quell'altro che veniva così a
togliergli la sua pace. Non conosceva don Rodrigo che di vista e di
fama, né aveva mai avuto che far con lui, altro che di toccare
il petto col mento, e la terra con la punta del suo cappello, quelle
poche volte che l'aveva incontrato per la strada. Gli era occorso di
difendere, in più d'un'occasione, la riputazione di quel
signore, contro coloro che, a bassa voce, sospirando, e alzando gli
occhi al cielo, maledicevano qualche suo fatto: aveva detto cento
volte ch'era un rispettabile cavaliere. Ma, in quel momento gli diede
in cuor suo tutti que' titoli che non aveva mai udito applicargli da
altri, senza interrompere in fretta con un oibò. Giunto, tra il
tumulto di questi pensieri, alla porta di casa sua, ch'era in fondo
del paesello, mise in fretta nella toppa la chiave, che già
teneva in mano; aprì, entrò, richiuse diligentemente; e,
ansioso di trovarsi in una compagnia fidata, chiamò subito: -
Perpetua! Perpetua! -, avviandosi pure verso il salotto, dove questa
doveva esser certamente ad apparecchiar la tavola per la cena. Era
Perpetua, come ognun se n'avvede, la serva di don Abbondio: serva
affezionata e fedele, che sapeva ubbidire e comandare, secondo
l'occasione, tollerare a tempo il brontolìo e le
fantasticaggini del padrone, e fargli a tempo tollerar le proprie, che
divenivan di giorno in giorno più frequenti, da che aveva
passata l'età sinodale dei quaranta, rimanendo celibe, per aver
rifiutati tutti i partiti che le si erano offerti, come diceva lei, o
per non aver mai trovato un cane che la volesse, come dicevan le sue
amiche.

- Vengo, - rispose, mettendo sul tavolino, al luogo solito, il
fiaschetto del vino prediletto di don Abbondio, e si mosse lentamente;
ma non aveva ancor toccata la soglia del salotto, ch'egli
v'entrò, con un passo così legato, con uno sguardo
così adombrato, con un viso così stravolto, che non ci
sarebbero nemmen bisognati gli occhi esperti di Perpetua, per
iscoprire a prima vista che gli era accaduto qualche cosa di
straordinario davvero.

- Misericordia! cos'ha, signor padrone?

- Niente, niente, - rispose don Abbondio, lasciandosi andar tutto
ansante sul suo seggiolone.

- Come, niente? La vuol dare ad intendere a me? così brutto
com'è? Qualche gran caso è avvenuto.

- Oh, per amor del cielo! Quando dico niente, o è niente, o
è cosa che non posso dire.

- Che non può dir neppure a me? Chi si prenderà cura
della sua salute? Chi le darà un parere?...

- Ohimè! tacete, e non apparecchiate altro: datemi un bicchiere
del mio vino.

- E lei mi vorrà sostenere che non ha niente! - disse Perpetua,
empiendo il bicchiere, e tenendolo poi in mano, come se non volesse
darlo che in premio della confidenza che si faceva tanto aspettare.

- Date qui, date qui, - disse don Abbondio, prendendole il bicchiere,
con la mano non ben ferma, e votandolo poi in fretta, come se fosse
una medicina.

- Vuol dunque ch'io sia costretta di domandar qua e là cosa sia
accaduto al mio padrone? - disse Perpetua, ritta dinanzi a lui, con le
mani arrovesciate sui fianchi, e le gomita appuntate davanti,
guardandolo fisso, quasi volesse succhiargli dagli occhi il segreto.

- Per amor del cielo! non fate pettegolezzi, non fate schiamazzi: ne
va... ne va la vita!

- La vita!

- La vita.

- Lei sa bene che, ogni volta che m'ha detto qualche cosa
sinceramente, in confidenza, io non ho mai...

- Brava! come quando...

Perpetua s'avvide d'aver toccato un tasto falso; onde, cambiando
subito il tono, - signor padrone, - disse, con voce commossa e da
commovere, - io le sono sempre stata affezionata; e, se ora voglio
sapere, è per premura, perché vorrei poterla soccorrere,
darle un buon parere, sollevarle l'animo...

Il fatto sta che don Abbondio aveva forse tanta voglia di scaricarsi
del suo doloroso segreto, quanta ne avesse Perpetua di conoscerlo;
onde, dopo aver respinti sempre più debolmente i nuovi e
più incalzanti assalti di lei, dopo averle fatto più
d'una volta giurare che non fiaterebbe, finalmente, con molte
sospensioni, con molti ohimè, le raccontò il miserabile
caso. Quando si venne al nome terribile del mandante, bisognò
che Perpetua proferisse un nuovo e più solenne giuramento; e
don Abbondio, pronunziato quel nome, si rovesciò sulla
spalliera della seggiola, con un gran sospiro, alzando le mani, in
atto insieme di comando e di supplica, e dicendo: - per amor del
cielo!

- Delle sue! - esclamò Perpetua. - Oh che birbone! oh che
soverchiatore! oh che uomo senza timor di Dio!

- Volete tacere? o volete rovinarmi del tutto?

- Oh! siam qui soli che nessun ci sente. Ma come farà, povero
signor padrone?

- Oh vedete, - disse don Abbondio, con voce stizzosa: - vedete che bei
pareri mi sa dar costei! Viene a domandarmi come farò, come
farò; quasi fosse lei nell'impiccio, e toccasse a me di
levarnela.

- Ma! io l'avrei bene il mio povero parere da darle; ma poi...

- Ma poi, sentiamo.

- Il mio parere sarebbe che, siccome tutti dicono che il nostro
arcivescovo è un sant'uomo, e un uomo di polso, e che non ha
paura di nessuno, e, quando può fare star a dovere un di questi
prepotenti, per sostenere un curato, ci gongola; io direi, e dico che
lei gli scrivesse una bella lettera, per informarlo come qualmente...

- Volete tacere? volete tacere? Son pareri codesti da dare a un
pover'uomo? Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena,
Dio liberi! l'arcivescovo me la leverebbe?

- Eh! le schioppettate non si dànno via come confetti: e guai
se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano! E io ho
sempre veduto che a chi sa mostrare i denti, e farsi stimare, gli si
porta rispetto; e, appunto perché lei non vuol mai dir la sua
ragione, siam ridotti a segno che tutti vengono, con licenza, a...

- Volete tacere?

- Io taccio subito; ma è però certo che, quando il mondo
s'accorge che uno, sempre, in ogni incontro, è pronto a calar
le...

- Volete tacere? E' tempo ora di dir codeste baggianate?

- Basta: ci penserà questa notte; ma intanto non cominci a
farsi male da sé, a rovinarsi la salute; mangi un boccone.

- Ci penserò io, - rispose, brontolando, don Abbondio: -
sicuro; io ci penserò, io ci ho da pensare - E s'alzò,
continuando: - non voglio prender niente; niente: ho altra voglia: lo
so anch'io che tocca a pensarci a me. Ma! la doveva accader per
l'appunto a me.

- Mandi almen giù quest'altro gocciolo, - disse Perpetua,
mescendo. - Lei sa che questo le rimette sempre lo stomaco.

- Eh! ci vuol altro, ci vuol altro, ci vuol altro. Così dicendo
prese il lume, e, brontolando sempre: - una piccola bagattella! a un
galantuomo par mio! e domani com'andrà? - e altre simili
lamentazioni, s'avviò per salire in camera. Giunto su la
soglia, si voltò indietro verso Perpetua, mise il dito sulla
bocca, disse, con tono lento e solenne : - per amor del cielo! -, e
disparve.


# Capitolo II

Si racconta che il principe di Condé dormì profondamente
la notte avanti la giornata di Rocroi: ma, in primo luogo, era molto
affaticato; secondariamente aveva già date tutte le
disposizioni necessarie, e stabilito ciò che dovesse fare, la
mattina. Don Abbondio in vece non sapeva altro ancora se non che
l'indomani sarebbe giorno di battaglia; quindi una gran parte della
notte fu spesa in consulte angosciose. Non far caso dell'intimazione
ribalda, né delle minacce, e fare il matrimonio, era un
partito, che non volle neppur mettere in deliberazione. Confidare a
Renzo l'occorrente, e cercar con lui qualche mezzo... Dio liberi! -
Non si lasci scappar parola... altrimenti...  «ehm!» - aveva detto
un di que' bravi; e, al sentirsi rimbombar quell' «ehm!»  nella
mente, don Abbondio, non che pensare a trasgredire una tal legge, si
pentiva anche dell'aver ciarlato con Perpetua. Fuggire? Dove? E poi!
Quant'impicci, e quanti conti da rendere! A ogni partito che
rifiutava, il pover'uomo si rivoltava nel letto. Quello che, per ogni
verso, gli parve il meglio o il men male, fu di guadagnar tempo,
menando Renzo per le lunghe. Si rammentò a proposito, che
mancavan pochi giorni al tempo proibito per le nozze; « e, se
posso tenere a bada, per questi pochi giorni, quel ragazzone, ho poi
due mesi di respiro; e, in due mesi, può nascer di gran cose
». Ruminò pretesti da metter in campo; e, benché
gli paressero un po' leggieri, pur s'andava rassicurando col pensiero
che la sua autorità gli avrebbe fatti parer di giusto peso, e
che la sua antica esperienza gli darebbe gran vantaggio sur un
giovanetto ignorante. « Vedremo, - diceva tra sé: - egli
pensa alla morosa; ma io penso alla pelle: il più interessato
son io, lasciando stare che sono il più accorto. Figliuol caro,
se tu ti senti il bruciore addosso, non so che dire; ma io non voglio
andarne di mezzo ». Fermato così un poco l'animo a una
deliberazione, poté finalmente chiuder occhio: ma che sonno!
che sogni! Bravi, don Rodrigo, Renzo, viottole, rupi, fughe,
inseguimenti, grida, schioppettate. Il primo svegliarsi, dopo una
sciagura, e in un impiccio, è un momento molto amaro. La mente,
appena risentita, ricorre all'idee abituali della vita tranquilla
antecedente; ma il pensiero del nuovo stato di cose le si affaccia
subito sgarbatamente; e il dispiacere ne è più vivo in
quel paragone istantaneo. Assaporato dolorosamente questo momento, don
Abbondio ricapitolò subito i suoi disegni della notte, si
confermò in essi, gli ordinò meglio, s'alzò, e
stette aspettando Renzo con timore e, ad un tempo, con impazienza.
Lorenzo o, come dicevan tutti, Renzo non si fece molto aspettare.
Appena gli parve ora di poter, senza indiscrezione, presentarsi al
curato, v'andò, con la lieta furia d'un uomo di vent'anni, che
deve in quel giorno sposare quella che ama. Era, fin dall'adolescenza,
rimasto privo de' parenti, ed esercitava la professione di filatore di
seta, ereditaria, per dir così, nella sua famiglia;
professione, negli anni indietro, assai lucrosa; allora già in
decadenza, ma non però a segno che un abile operaio non potesse
cavarne di che vivere onestamente. Il lavoro andava di giorno in
giorno scemando; ma l'emigrazione continua de' lavoranti, attirati
negli stati vicini da promesse, da privilegi e da grosse paghe, faceva
sì che non ne mancasse ancora a quelli che rimanevano in paese.
Oltre di questo, possedeva Renzo un poderetto che faceva lavorare e
lavorava egli stesso, quando il filatoio stava fermo; di modo che, per
la sua condizione, poteva dirsi agiato. E quantunque quell'annata
fosse ancor più scarsa delle antecedenti, e già si
cominciasse a provare una vera carestia, pure il nostro giovine, che,
da quando aveva messi gli occhi addosso a Lucia, era divenuto massaio,
si trovava provvisto bastantemente, e non aveva a contrastar con la
fame. Comparve davanti a don Abbondio, in gran gala, con penne di
vario colore al cappello, col suo pugnale del manico bello, nel
taschino de' calzoni, con una cert'aria di festa e nello stesso tempo
di braverìa, comune allora anche agli uomini più quieti.
L'accoglimento incerto e misterioso di don Abbondio fece un
contrapposto singolare ai modi gioviali e risoluti del giovinotto.

« Che abbia qualche pensiero per la testa »,
argomentò Renzo tra sé; poi disse: - son venuto, signor
curato, per sapere a che ora le comoda che ci troviamo in chiesa.

- Di che giorno volete parlare?

- Come, di che giorno? non si ricorda che s'è fissato per oggi?

- Oggi? - replicò don Abbondio, come se ne sentisse parlare per
la prima volta. - Oggi, oggi... abbiate pazienza, ma oggi non posso.

- Oggi non può! Cos'è nato?

- Prima di tutto, non mi sento bene, vedete.

- Mi dispiace; ma quello che ha da fare è cosa di così
poco tempo, e di così poca fatica...

- E poi, e poi, e poi...

- E poi che cosa?

- E poi c'è degli imbrogli.

- Degl'imbrogli? Che imbrogli ci può essere?

- Bisognerebbe trovarsi nei nostri piedi, per conoscer quanti impicci
nascono in queste materie, quanti conti s'ha da rendere. Io son troppo
dolce di cuore, non penso che a levar di mezzo gli ostacoli, a
facilitar tutto, a far le cose secondo il piacere altrui, e trascuro
il mio dovere; e poi mi toccan de' rimproveri, e peggio.

- Ma, col nome del cielo, non mi tenga così sulla corda, e mi
dica chiaro e netto cosa c'è.

- Sapete voi quante e quante formalità ci vogliono per fare un
matrimonio in regola?

- Bisogna ben ch'io ne sappia qualche cosa, - disse Renzo, cominciando
ad alterarsi, - poiché me ne ha già rotta bastantemente
la testa, questi giorni addietro. Ma ora non s'è sbrigato ogni
cosa? non s'è fatto tutto ciò che s'aveva a fare?

- Tutto, tutto, pare a voi: perché, abbiate pazienza, la bestia
son io, che trascuro il mio dovere, per non far penare la gente. Ma
ora... basta, so quel che dico. Noi poveri curati siamo tra l'ancudine
e il martello: voi impaziente; vi compatisco, povero giovane; e i
superiori... basta, non si può dir tutto. E noi siam quelli che
ne andiam di mezzo.

- Ma mi spieghi una volta cos'è quest'altra formalità
che s'ha a fare, come dice; e sarà subito fatta.

- Sapete voi quanti siano gl'impedimenti dirimenti?

- Che vuol ch'io sappia d'impedimenti?

-  «Error, conditio, votum, cognatio, crimen,
Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, honestas,
Si sis affinis,...»  - cominciava don Abbondio, contando sulla punta
delle dita.

- Si piglia gioco di me? - interruppe il giovine. - Che vuol ch'io
faccia del suo  «latinorum» ?

- Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi
le sa.

- Orsù!...

- Via, caro Renzo, non andate in collera, che son pronto a fare...
tutto quello che dipende da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi
voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate così bene; cosa
vi mancava? V'è saltato il grillo di maritarvi...

- Che discorsi son questi, signor mio? - proruppe Renzo, con un volto
tra l'attonito e l'adirato.

- Dico per dire, abbiate pazienza, dico per dire. Vorrei vedervi
contento.

- In somma...

- In somma, figliuol caro, io non ci ho colpa; la legge non l'ho fatta
io. E, prima di conchiudere un matrimonio, noi siam proprio obbligati
a far molte e molte ricerche, per assicurarci che non ci siano
impedimenti.

- Ma via, mi dica una volta che impedimento è sopravvenuto?

- Abbiate pazienza, non son cose da potersi decifrare così su
due piedi. Non ci sarà niente, così spero; ma, non
ostante, queste ricerche noi le dobbiam fare. Il testo è chiaro
e lampante: antequam matrimonium denunciet...

- Le ho detto che non voglio latino.

- Ma bisogna pur che vi spieghi...

- Ma non le ha già fatte queste ricerche?

- Non le ho fatte tutte, come avrei dovuto, vi dico.

- Perché non le ha fatte a tempo? perché dirmi che tutto
era finito? perché aspettare...

- Ecco! mi rimproverate la mia troppa bontà. Ho facilitato ogni
cosa per servirvi più presto: ma... ma ora mi son venute...
basta, so io.

- E che vorrebbe ch'io facessi?

- Che aveste pazienza per qualche giorno. Figliuol caro, qualche
giorno non è poi l'eternità: abbiate pazienza.

- Per quanto?

« Siamo a buon porto », pensò fra sé don
Abbondio; e, con un fare più manieroso che mai, - via, - disse:
- in quindici giorni cercherò,... procurerò...

- Quindici giorni! oh questa sì ch'è nuova! S'è
fatto tutto ciò che ha voluto lei; s'è fissato il
giorno; il giorno arriva; e ora lei mi viene a dire che aspetti
quindici giorni! Quindici... - riprese poi, con voce più alta e
stizzosa, stendendo il braccio, e battendo il pugno nell'aria; e chi
sa qual diavoleria avrebbe attaccata a quel numero, se don Abbondio
non l'avesse interrotto, prendendogli l'altra mano, con
un'amorevolezza timida e premurosa: - via, via, non v'alterate, per
amor del cielo. Vedrò, cercherò se, in una settimana...

- E a Lucia che devo dire?

- Ch'è stato un mio sbaglio.

- E i discorsi del mondo?

- Dite pure a tutti, che ho sbagliato io, per troppa furia, per troppo
buon cuore: gettate tutta la colpa addosso a me. Posso parlar meglio?
via, per una settimana.

- E poi, non ci sarà più altri impedimenti?

- Quando vi dico...

- Ebbene: avrò pazienza per una settimana; ma ritenga bene che,
passata questa, non m'appagherò più di chiacchiere.
Intanto la riverisco -. E così detto, se n'andò, facendo
a don Abbondio un inchino men profondo del solito, e dandogli
un'occhiata più espressiva che riverente.

Uscito poi, e camminando di mala voglia, per la prima volta, verso la
casa della sua promessa, in mezzo alla stizza, tornava con la mente su
quel colloquio; e sempre più lo trovava strano. L'accoglienza
fredda e impicciata di don Abbondio, quel suo parlare stentato insieme
e impaziente, que' due occhi grigi che, mentre parlava, eran sempre
andati scappando qua e là, come se avesser avuto paura
d'incontrarsi con le parole che gli uscivan di bocca, quel farsi quasi
nuovo del matrimonio così espressamente concertato, e sopra
tutto quell'accennar sempre qualche gran cosa, non dicendo mai nulla
di chiaro; tutte queste circostanze messe insieme facevan pensare a
Renzo che ci fosse sotto un mistero diverso da quello che don Abbondio
aveva voluto far credere. Stette il giovine in forse un momento di
tornare indietro, per metterlo alle strette, e farlo parlar più
chiaro; ma, alzando gli occhi, vide Perpetua che camminava dinanzi a
lui, ed entrava in un orticello pochi passi distante dalla casa. Le
diede una voce, mentre essa apriva l'uscio; studiò il passo, la
raggiunse, la ritenne sulla soglia, e, col disegno di scovar qualche
cosa di più positivo, si fermò ad attaccar discorso con
essa.

- Buon giorno, Perpetua: io speravo che oggi si sarebbe stati allegri
insieme.

- Ma! quel che Dio vuole, il mio povero Renzo.

- Fatemi un piacere: quel benedett'uomo del signor curato m'ha
impastocchiate certe ragioni che non ho potuto ben capire: spiegatemi
voi meglio perché non può o non vuole maritarci oggi.

- Oh! vi par egli ch'io sappia i segreti del mio padrone?

« L'ho detto io, che c'era mistero sotto », pensò
Renzo; e, per tirarlo in luce, continuò: - via, Perpetua; siamo
amici; ditemi quel che sapete, aiutate un povero figliuolo.

- Mala cosa nascer povero, il mio caro Renzo.

- E' vero, - riprese questo, sempre più confermandosi ne' suoi
sospetti; e, cercando d'accostarsi più alla questione, -
è vero, - soggiunse, - ma tocca ai preti a trattar male co'
poveri?

- Sentite, Renzo; io non posso dir niente, perché... non so
niente; ma quello che vi posso assicurare è che il mio padrone
non vuol far torto, né a voi né a nessuno; e lui non ci
ha colpa.

- Chi è dunque che ci ha colpa? - domandò Renzo, con un
cert'atto trascurato, ma col cuor sospeso, e con l'orecchio all'erta.

- Quando vi dico che non so niente... In difesa del mio padrone, posso
parlare; perché mi fa male sentire che gli si dia carico di
voler far dispiacere a qualcheduno. Pover'uomo! se pecca, è per
troppa bontà. C'è bene a questo mondo de' birboni, de'
prepotenti, degli uomini senza timor di Dio...

« Prepotenti! birboni! - pensò Renzo: - questi non sono i
superiori ». - Via, - disse poi, nascondendo a stento
l'agitazione crescente, - via, ditemi chi è.

- Ah! voi vorreste farmi parlare; e io non posso parlare,
perché... non so niente: quando non so niente, è come se
avessi giurato di tacere. Potreste darmi la corda, che non mi
cavereste nulla di bocca. Addio; è tempo perduto per tutt'e due
-. Così dicendo, entrò in fretta nell'orto, e chiuse
l'uscio. Renzo, rispostole con un saluto, tornò indietro pian
piano, per non farla accorgere del cammino che prendeva; ma, quando fu
fuor del tiro dell'orecchio della buona donna, allungò il
passo; in un momento fu all'uscio di don Abbondio; entrò,
andò diviato al salotto dove l'aveva lasciato, ve lo
trovò, e corse verso lui, con un fare ardito, e con gli occhi
stralunati.

- Eh! eh! che novità è questa? - disse don Abbondio.

- Chi è quel prepotente, - disse Renzo, con la voce d'un uomo
ch'è risoluto d'ottenere una risposta precisa, - chi è
quel prepotente che non vuol ch'io sposi Lucia?

- Che? che? che? - balbettò il povero sorpreso, con un volto
fatto in un istante bianco e floscio, come un cencio che esca del
bucato. E, pur brontolando, spiccò un salto dal suo seggiolone,
per lanciarsi all'uscio. Ma Renzo, che doveva aspettarsi quella mossa,
e stava all'erta, vi balzò prima di lui, girò la chiave,
e se la mise in tasca.

- Ah! ah! parlerà ora, signor curato? Tutti sanno i fatti miei,
fuori di me. Voglio saperli, per bacco, anch'io. Come si chiama colui?

- Renzo! Renzo! per carità, badate a quel che fate; pensate
all'anima vostra.

- Penso che lo voglio saper subito, sul momento -. E, così
dicendo, mise, forse senza avvedersene, la mano sul manico del
coltello che gli usciva dal taschino.

- Misericordia! - esclamò con voce fioca don Abbondio.

- Lo voglio sapere.

- Chi v'ha detto...

- No, no; non più fandonie. Parli chiaro e subito.

- Mi volete morto?

- Voglio sapere ciò che ho ragion di sapere.

- Ma se parlo, son morto. Non m'ha da premere la mia vita?

- Dunque parli. Quel « dunque » fu proferito con una tale
energia, l'aspetto di Renzo divenne così minaccioso, che don
Abbondio non poté più nemmen supporre la
possibilità di disubbidire.

- Mi promettete, mi giurate, - disse - di non parlarne con nessuno, di
non dir mai...?

- Le prometto che fo uno sproposito, se lei non mi dice subito subito
il nome di colui.

A quel nuovo scongiuro, don Abbondio, col volto, e con lo sguardo di
chi ha in bocca le tanaglie del cavadenti, proferì: - don...

- Don? - ripeté Renzo, come per aiutare il paziente a buttar
fuori il resto; e stava curvo, con l'orecchio chino sulla bocca di
lui, con le braccia tese, e i pugni stretti all'indietro.

- Don Rodrigo! - pronunziò in fretta il forzato, precipitando
quelle poche sillabe, e strisciando le consonanti, parte per il
turbamento, parte perché, rivolgendo pure quella poca
attenzione che gli rimaneva libera, a fare una transazione tra le due
paure, pareva che volesse sottrarre e fare scomparir la parola, nel
punto stesso ch'era costretto a metterla fuori.

- Ah cane! - urlò Renzo. - E come ha fatto? Cosa le ha detto
per...?

- Come eh? come? - rispose, con voce quasi sdegnosa, don Abbondio, il
quale, dopo un così gran sagrifizio, si sentiva in certo modo
divenuto creditore. - Come eh? Vorrei che la fosse toccata a voi, come
è toccata a me, che non c'entro per nulla; che certamente non
vi sarebber rimasti tanti grilli in capo -. E qui si fece a dipinger
con colori terribili il brutto incontro; e, nel discorrere,
accorgendosi sempre più d'una gran collera che aveva in corpo,
e che fin allora era stata nascosta e involta nella paura, e vedendo
nello stesso tempo che Renzo, tra la rabbia e la confusione, stava
immobile, col capo basso, continuò allegramente: - avete fatta
una bella azione! M'avete reso un bel servizio! Un tiro di questa
sorte a un galantuomo, al vostro curato! in casa sua! in luogo sacro!
Avete fatta una bella prodezza! Per cavarmi di bocca il mio malanno,
il vostro malanno! ciò ch'io vi nascondevo per prudenza, per
vostro bene! E ora che lo sapete? Vorrei vedere che mi faceste...! Per
amor del cielo! Non si scherza. Non si tratta di torto o di ragione;
si tratta di forza. E quando, questa mattina, vi davo un buon
parere... eh! subito nelle furie. Io avevo giudizio per me e per voi;
ma come si fa? Aprite almeno; datemi la mia chiave.

- Posso aver fallato, - rispose Renzo, con voce raddolcita verso don
Abbondio, ma nella quale si sentiva il furore contro il nemico
scoperto: - posso aver fallato; ma si metta la mano al petto, e pensi
se nel mio caso...

Così dicendo, s'era levata la chiave di tasca, e andava ad
aprire. Don Abbondio gli andò dietro, e, mentre quegli girava
la chiave nella toppa, se gli accostò, e, con volto serio e
ansioso, alzandogli davanti agli occhi le tre prime dita della destra,
come per aiutarlo anche lui dal canto suo, - giurate almeno... - gli
disse.

- Posso aver fallato; e mi scusi, - rispose Renzo, aprendo, e
disponendosi ad uscire.

- Giurate... - replicò don Abbondio, afferrandogli il braccio
con la mano tremante.

- Posso aver fallato, - ripeté Renzo, sprigionandosi da lui; e
partì in furia, troncando così la questione, che, al
pari d'una questione di letteratura o di filosofia o d'altro, avrebbe
potuto durar dei secoli, giacché ognuna delle parti non faceva
che replicare il suo proprio argomento.

- Perpetua! Perpetua! - gridò don Abbondio, dopo avere invano
richiamato il fuggitivo. Perpetua non risponde: don Abbondio non
sapeva più in che mondo si fosse.

E' accaduto più d'una volta a personaggi di ben più alto
affare che don Abbondio, di trovarsi in frangenti così
fastidiosi, in tanta incertezza di partiti, che parve loro un ottimo
ripiego mettersi a letto con la febbre. Questo ripiego, egli non lo
dovette andare a cercare, perché gli si offerse da sé.
La paura del giorno avanti, la veglia angosciosa della notte, la paura
avuta in quel momento, l'ansietà dell'avvenire, fecero
l'effetto. Affannato e balordo, si ripose sul suo seggiolone,
cominciò a sentirsi qualche brivido nell'ossa, si guardava le
unghie sospirando, e chiamava di tempo in tempo, con voce tremolante e
stizzosa: - Perpetua! - La venne finalmente, con un gran cavolo sotto
il braccio, e con la faccia tosta, come se nulla fosse stato.
Risparmio al lettore i lamenti, le condoglianze, le accuse, le difese,
i « voi sola potete aver parlato », e i « non ho
parlato », tutti i pasticci in somma di quel colloquio. Basti
dire che don Abbondio ordinò a Perpetua di metter la stanga
all'uscio, di non aprir più per nessuna cagione, e, se alcun
bussasse, risponder dalla finestra che il curato era andato a letto
con la febbre. Salì poi lentamente le scale, dicendo, ogni tre
scalini, - son servito -; e si mise davvero a letto, dove lo
lasceremo.

Renzo intanto camminava a passi infuriati verso casa, senza aver
determinato quel che dovesse fare, ma con una smania addosso di far
qualcosa di strano e di terribile. I provocatori, i soverchiatori,
tutti coloro che, in qualunque modo, fanno torto altrui, sono rei, non
solo del male che commettono, ma del pervertimento ancora a cui
portano gli animi degli offesi. Renzo era un giovine pacifico e alieno
dal sangue, un giovine schietto e nemico d'ogni insidia; ma, in que'
momenti, il suo cuore non batteva che per l'omicidio, la sua mente non
era occupata che a fantasticare un tradimento. Avrebbe voluto correre
alla casa di don Rodrigo, afferrarlo per il collo, e... ma gli veniva
in mente ch'era come una fortezza, guarnita di bravi al di dentro, e
guardata al di fuori; che i soli amici e servitori ben conosciuti
v'entravan liberamente, senza essere squadrati da capo a piedi; che un
artigianello sconosciuto non vi potrebb'entrare senza un esame, e
ch'egli sopra tutto... egli vi sarebbe forse troppo conosciuto. Si
figurava allora di prendere il suo schioppo, d'appiattarsi dietro una
siepe, aspettando se mai, se mai colui venisse a passar solo; e,
internandosi, con feroce compiacenza, in quell'immaginazione, si
figurava di sentire una pedata, quella pedata, d'alzar chetamente la
testa; riconosceva lo scellerato, spianava lo schioppo, prendeva la
mira, sparava, lo vedeva cadere e dare i tratti, gli lanciava una
maledizione, e correva sulla strada del confine a mettersi in salvo.
« E Lucia? » Appena questa parola si fu gettata a traverso
di quelle bieche fantasie, i migliori pensieri a cui era avvezza la
mente di Renzo, v'entrarono in folla. Si rammentò degli ultimi
ricordi de' suoi parenti, si rammentò di Dio, della Madonna e
de' santi, pensò alla consolazione che aveva tante volte
provata di trovarsi senza delitti, all'orrore che aveva tante volte
provato al racconto d'un omicidio; e si risvegliò da quel sogno
di sangue, con ispavento, con rimorso, e insieme con una specie di
gioia di non aver fatto altro che immaginare. Ma il pensiero di Lucia,
quanti pensieri tirava seco! Tante speranze, tante promesse, un
avvenire così vagheggiato, e così tenuto sicuro, e quel
giorno così sospirato! E come, con che parole annunziarle una
tal nuova? E poi, che partito prendere? Come farla sua, a dispetto
della forza di quell'iniquo potente? E insieme a tutto questo, non un
sospetto formato, ma un'ombra tormentosa gli passava per la mente.
Quella soverchieria di don Rodrigo non poteva esser mossa che da una
brutale passione per Lucia. E Lucia? Che avesse data a colui la
più piccola occasione, la più leggiera lusinga, non era
un pensiero che potesse fermarsi un momento nella testa di Renzo. Ma
n'era informata? Poteva colui aver concepita quell'infame passione,
senza che lei se n'avvedesse? Avrebbe spinte le cose tanto in
là, prima d'averla tentata in qualche modo? E Lucia non ne
aveva mai detta una parola a lui! al suo promesso!

Dominato da questi pensieri, passò davanti a casa sua, ch'era
nel mezzo del villaggio, e, attraversatolo, s'avviò a quella di
Lucia, ch'era in fondo, anzi un po' fuori. Aveva quella casetta un
piccolo cortile dinanzi, che la separava dalla strada, ed era cinto da
un murettino. Renzo entrò nel cortile, e sentì un misto
e continuo ronzìo che veniva da una stanza di sopra.
S'immaginò che sarebbero amiche e comari, venute a far
corteggio a Lucia; e non si volle mostrare a quel mercato, con quella
nuova in corpo e sul volto. Una fanciulletta che si trovava nel
cortile, gli corse incontro gridando: - lo sposo! lo sposo!

- Zitta, Bettina, zitta! - disse Renzo. - Vien qua; va' su da Lucia,
tirala in disparte, e dille all'orecchio... ma che nessun senta,
né sospetti di nulla, ve'... dille che ho da parlarle, che
l'aspetto nella stanza terrena, e che venga subito -. La fanciulletta
salì in fretta le scale, lieta e superba d'avere una commission
segreta da eseguire.

Lucia usciva in quel momento tutta attillata dalle mani della madre.
Le amiche si rubavano la sposa, e le facevan forza perché si
lasciasse vedere; e lei s'andava schermendo, con quella modestia un
po' guerriera delle contadine, facendosi scudo alla faccia col gomito,
chinandola sul busto, e aggrottando i lunghi e neri sopraccigli,
mentre però la bocca s'apriva al sorriso. I neri e giovanili
capelli, spartiti sopra la fronte, con una bianca e sottile
dirizzatura, si ravvolgevan, dietro il capo, in cerchi moltiplici di
trecce, trapassate da lunghi spilli d'argento, che si dividevano
all'intorno, quasi a guisa de' raggi d'un'aureola, come ancora usano
le contadine nel Milanese. Intorno al collo aveva un vezzo di granati
alternati con bottoni d'oro a filigrana: portava un bel busto di
broccato a fiori, con le maniche separate e allacciate da bei nastri:
una corta gonnella di filaticcio di seta, a pieghe fitte e minute, due
calze vermiglie, due pianelle, di seta anch'esse, a ricami. Oltre a
questo, ch'era l'ornamento particolare del giorno delle nozze, Lucia
aveva quello quotidiano d'una modesta bellezza, rilevata allora e
accresciuta dalle varie affezioni che le si dipingevan sul viso: una
gioia temperata da un turbamento leggiero, quel placido accoramento
che si mostra di quand'in quando sul volto delle spose, e, senza
scompor la bellezza, le dà un carattere particolare. La piccola
Bettina si cacciò nel crocchio, s'accostò a Lucia, le
fece intendere accortamente che aveva qualcosa da comunicarle, e le
disse la sua parolina all'orecchio.

- Vo un momento, e torno, - disse Lucia alle donne; e scese in fretta.
Al veder la faccia mutata, e il portamento inquieto di Renzo, - cosa
c'è? - disse, non senza un presentimento di terrore.

- Lucia! - rispose Renzo, - per oggi, tutto è a monte; e Dio sa
quando potremo esser marito e moglie.

- Che? - disse Lucia tutta smarrita. Renzo le raccontò
brevemente la storia di quella mattina: ella ascoltava con angoscia: e
quando udì il nome di don Rodrigo, - ah! - esclamò,
arrossendo e tremando, - fino a questo segno!

- Dunque voi sapevate...? - disse Renzo.

- Pur troppo! - rispose Lucia; - ma a questo segno!

- Che cosa sapevate?

- Non mi fate ora parlare, non mi fate piangere. Corro a chiamar mia
madre, e a licenziar le donne: bisogna che siam soli.

Mentre ella partiva, Renzo susurrò: - non m'avete mai detto
niente.

- Ah, Renzo! - rispose Lucia, rivolgendosi un momento, senza fermarsi.
Renzo intese benissimo che il suo nome pronunziato in quel momento,
con quel tono, da Lucia, voleva dire: potete voi dubitare ch'io abbia
taciuto se non per motivi giusti e puri?

Intanto la buona Agnese (così si chiamava la madre di Lucia),
messa in sospetto e in curiosità dalla parolina all'orecchio, e
dallo sparir della figlia, era discesa a veder cosa c'era di nuovo. La
figlia la lasciò con Renzo, tornò alle donne radunate,
e, accomodando l'aspetto e la voce, come pote meglio, disse: - il
signor curato è ammalato; e oggi non si fa nulla -. Ciò
detto, le salutò tutte in fretta, e scese di nuovo.

Le donne sfilarono, e si sparsero a raccontar l'accaduto. Due o tre
andaron fin all'uscio del curato, per verificar se era ammalato
davvero.

- Un febbrone, - rispose Perpetua dalla finestra; e la trista parola,
riportata all'altre, troncò le congetture che già
cominciavano a brulicar ne' loro cervelli, e ad annunziarsi tronche e
misteriose ne' loro discorsi.